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Portare Internet dove manca il pane

Andrea Glorioso

 

Quando si discute di Digital Divide, ed in particolar modo dell'utilità delle nuove tecnologie nei paesi in via di sviluppo (si pronuncia "paesi poveri") una delle domande che solitamente ci si pone è quale sia l'effettiva utilità di tali tecnologie in situazioni in cui la scala di priorità è estremamente diversa dal mondo occidentale.

 

La domanda è più che legittima: in società in cui le persone continuano a morire per malattie assolutamente banali, malattie che nei paesi sviluppati richiedono al più una visita dal proprio medico di fiducia - anche se molti cittadini statunitensi a tutt'oggi non possono godere di questo tipo di supporto, tanto per rimarcare il fatto che non è sempre necessario scomodare realtà come quella africana - che differenza fa se si possa o meno navigare sul web, mandare un messaggio di posta elettronica o effettuare una videoconferenza?

 

In realtà il problema, se visto da questa angolatura, è mal posto. Il problema del "Digital Divide", perlomeno all'interno dei gruppi che hanno un'effettiva conoscenza della questione, non è un problema di fini ma di mezzi.

 

"Portare un computer in ogni casa", per citare il "business goal" di una nota società informatica (o perlomeno il "business goal" come esce dal reparto marketing di tale ditta) non è un fine a sé. Il punto, se ci si ferma ad analizzare la questione, è che il "digitale", e le tecnologie telematiche in particolare, costituiscono un utile e potente strumento per risolvere quei problemi che hanno comunque bisogno di una precisa volontà politica - e di un coerente e consapevole sforzo analitico - per essere affrontati ed eventualmente risolti.

 

Poco ma sicuro, avere un collegamento ad Internet non impedisce ad una donna africana di subire il rito dell'infibulazione - un esempio a caso tra i tanti possibili; in questa sede non si intende affrontare quanto, nella critica all'infibulazione, pesino pregiudizi di matrice culturale occidentale ed una volontaria ignoranza di come impedire tale pratica senza eliminare il collegamento tra di essa e l'accettazione nel "gruppo" tribale possa alla lunga danneggiare, più che migliorare, la condizione della donna nelle società in cui vige tale uso.

 

In effetti l'esempio dell'infibulazione non è poi così astratto. Affrontare i problemi da un punto di vista meramente tecnico, un vecchio vizio sia del modello economico capitalista sia del metodo scientifico nelle sue forme più oltranziste, produce più danni di quanto non faccia il mancato intervento. Ma se si interviene anche a livello culturale, cercando di modificare i presupposti che stanno alla base della "necessità" per una donna di essere infibulata - per rimanere nel tema - allora il discorso cambia.

 

Certamente noi, come "mondo occidentale", non abbiamo alcun diritto di insegnare ad altre società quali debbano essere i loro fini e i loro obiettivi, o che il nostro modello culturale sia "meglio" del loro. In questi casi, una possibile risoluzione dello stallo che si viene a creare tra la genuina volontà di migliorare le condizioni altrui e la superbia di voler imporre le proprie scelte di vita può essere quella di dare la possibilità di scegliere. E si può scegliere solo quando si conoscono le alternative.

 

Delle tecnologie telematiche, Internet "in primis", si può dire peste e corna. Ma sicuramente non si può dire che non siano un potentissimo mezzo di diffusione di informazioni - alla fin fine, anche coloro che vedono in Internet uno strumento "negativo" ne criticano proprio l'eccessiva facilità nel diffondere informazioni. Dare la possibilità ad una donna africana di conoscere altri modelli di comportamento, altre realtà sociali, altri possibili mondi in cui la donna, per essere accettata, non ha bisogno di essere mutilata nel corpo (magari deve essere mutilata nello spirito, ma questo è un altro discorso) può essere il primo passo.

 

La possibilità di reperire informazioni gioca un ruolo importantissimo da questo punto di vista. I maggiori cambiamenti sociali sono sempre avvenuti quando dei gruppi sociali hanno avuto accesso ad informazioni tali da sconvolgere la visione del mondo "cristallizzata" che il resto della società aveva del mondo - la bibbia in tedesco, resa possibile dalla "tecnologia" della stampa, è l'esempio più lampante. Una donna africana che riesce ad ottenere informazioni precise su come avviare una piccola attività imprenditoriale in proprio, magari tramite lo strumento del microcredito, assume un maggior controllo sulla propria vita, ed ha la possibilità di dire "no". Può anche dire di sì, ovviamente, se è questo che vuole.

 

In un mondo in cui ottenere un'informazione che vada al di là del proprio villaggio è un'impresa disperata, avere accesso ad un sito web, ad un gruppo di discussione, ad una mailing list, ad una persona con specifiche competenze che siede "dietro" ad una e-mail può fare la differenza.

Evidentemente non basta mettere un computer con un collegamento Internet in mano ad una donna africana e dirgli che ora è "empowered", per usare un termine molto caro alla scienza sociale statunitense - che in buona sostanza equivale al nostro "hai la bicicletta, ora pedala". Pedalare bisogna comunque: ma occorre anche un grosso sforzo di educazione all'uso dei nuovi strumenti informatici; il che presuppone un approccio politico globale al problema dei nuovi mezzi di comunicazione, visto che progettare e finanziare le infrastrutture necessarie non è una cosa che possa essere lasciata in toto alla buona volontà del singolo. L'esempio di AfriNIC è lampante: un impegno comune per essere presenti, come continente africano, all'interno di decisioni di natura tecnico-politica quali l'allocazione dello spazio di indirizzamento di Internet e la gestione dei nomi di dominio, compiti sinora "delegati", volenti o nolenti, ad entità "altre", come RIPE, ARIN, ICANN.

 

Un motto molto caro agli enti no-profit - si tornerà prossimamente sulla dualità profit/no-profit per cercare di capire quanto effettivamente utile sia, alla lunga distanza, la realtà no-profit per sanare i problemi raccolti sotto l'ombrello del "Digital Divide" - è "pensare globalmente, agire localmente". Il motto in sé è estremamente accattivante, ma nasconde delle difficoltà di messa in opera non indifferenti. Agire localmente è già di per sé un problema, specie in situazioni in cui la massa inerziale burocratica, tecnologica ed economica è incommensurabilmente maggiore rispetto alle realtà occidentali (o alla maggior parte di esse). Pensare globalmente richiede uno sforzo notevole; e quelle stesse società che maggiormente soffrono dei problemi legati al "digital divide" a volte mancano del necessario background tecnico-culturale (cultura qui si riferisce alle competenze tecniche, e non va inteso come un giudizio di valore sulla cultura in senso generale di un altro paese). Chi vuole aiutare in questo senso, deve essere pronto sia ad agire "localmente", tramite realtà come ad esempio i Geekcorps, sia a pensare "globalmente", partecipando alle discussioni in corso sulle mailing list e forum relative